Pochi giorni fa ricorreva il centoundicesimo anniversario della nascita di Jean-Paul Sartre e questo è stato il motivo del tutto casuale per cui mi sono imbattuta nel capolavoro che è La nausea. Ho appena finito di leggerlo e ci sarebbero milioni di modi in cui potrei parlarne.
Potrei dirvi, tanto per cominciare, che è il diario di uno storico, Antoine Roquentin, e il racconto del suo tentativo di portare a compimento un’opera sul controverso personaggio del marchese di Rollebon. Potrei parlarvene come di un romanzo metaletterario, in cui il tema dell’opera incompiuta si intreccia a più livelli dentro e fuori la storia. Oppure potrei dirvi che è l’incursione nella vita di un uomo solo, che si ritrova a riflettere sull’inutilità di vivere, in una esplorazione disillusa e sorprendente della materia prima di cui è fatta l’esistenza. Potrei raccontarvi del suo sguardo impietoso sulla realtà e sul vuoto che vi si cela dietro, che non lascia scampo. O ancora, potrei parlarvi della storia di un amore interrotto e mai sopito, di quel confine labile che talvolta intercorre tra un arrivederci e un addio, di quanto possa risultare odiosa una vita quando alla linfa che la anima si sostituisce un moto di inerzia per cui semplicemente le «si sopravvive». Potrei dirvi delle riflessioni sulla scelta ineluttabile di fronte alla quale si è posti nell’atto di scrivere: o vivere o narrarsi; o dell’indagine impietosa del quotidiano e di quanto sia faticoso trascinarsi avanti nel momento in cui si smette di perseguire un progetto. Oppure ancora, di quanto possa essere difficile sentirsi liberi con la consapevolezza che si tratti di una libertà fasulla, basata sul nulla. E solo alla fine, provare a parlarvi di quella Nausea che è una dimensione quasi metafisica, una condizione che si colloca fuori dell’individuo, una materia odiosa che permea tutto lo spazio entro il quale la realtà si manifesta, il sentimento dell’evidenza che le cose sono gratuite, che tutto – persino l’esistenza – è “di troppo” a questo mondo.
Ma non sarei capace di restituirvi la grandezza, la profondità, l’acutezza con cui Sartre ci porta al cuore di un’angoscia che è poi anche il senso dell’esistenza. Preferisco lasciarvi con delle curiosità collaterali, che vi spingano a cercare – dopo aver letto quest’opera imprescindibile – una continuazione nei mondi che le ruotano intorno.
A partire dal titolo, che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto essere Melancholia, in omaggio all’incisione cinquecentesca di Albrecht Dürer (famosissima e piena zeppa di riferimenti simbolici e alchemici – di cui lascio che a parlarvi sia qualcuno che ne sa ben più di me).
Dell’aneddoto, attraverso un breve carteggio, di come si sia arrivati all’idea della Nausea per intuizione dell’editore Gallimard:
«Signore, alleghiamo a questa lettera un contratto per la vostra opera intitolata Melancholia. Vi chiediamo di cambiare questo titolo che ci pare poco favorevole per il lancio dell’opera. Volete rifletterci un momento?…» (Gaston Gallimard, 17 giugno 1937).
«Caro Brice-Parain, ti invio il contratto firmato. Poiché Melancholia non vi piace, cosa ne pensate di Le avventure straordinarie d’Antoine Roquentin? Si potrebbe scrivere sulla fascetta: “Non ci son più avventure” o qualcosa del genere. Ma, forse, ti parrà che, per la fascetta, m’immischio in cose che non mi riguardano.» (Jean-Paul Sartre, senza data, ma fine giugno).
«Caro Sartre, ho ricevuto lettera e contratto. Il titolo mi pare andare; poiché è un poco lungo, si potrebbe sopprimere “straordinarie”? Quanto alla fascetta: “Non ci son più avventure” sarebbe indicata solo se si volesse far scappare il pubblico! Abbiamo tutto il tempo di trovarne una.» (Brice-Parain, 1° luglio 1937).
«Caro Sartre, Gaston Gallimard propone per il tuo libro un titolo che trovo eccellente: La Nausée…» (Bruce-Parain, 12 ottobre 1937).
Del meraviglioso ragtime dentro le cui note Antoine Roquentin si rifugia in un caffè di Bouville e che è una commovente ed elegantissima celebrazione di quegli addii che non riescono mai davvero a diventare più che un semplice arrivederci.
E poi un’istantanea dell’amore che legò Sartre e Simone de Beauvoir per tutta la vita.

Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre a Roma il 22 ottobre 1963 [Fonte: gettyimages.it].
Perché, come forse vuole lasciarci intendere l’autore di questa storia immensa, è l’amore l’unica cosa con cui possiamo sperare – e non è detto che ci riusciamo – di riempire il vuoto dentro il quale siamo condannati a vivere.
Era da tempo che non leggevo una “critica letteraria” così bella, appassionata e coinvolgente. Grazie!
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Sono lusingata, grazie a te!
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