[Per i giorni di neve e di vento freddo
Consiglio di lettura: Magda Szabó, La porta
Consiglio d’ascolto: Händel/Halvorsen, Passacaglia
Consiglio in infusione: tè verde zenzero e arancia]
Sono nata in una famiglia numerosa: mio padre è il terzo di otto fratelli e provare a contare tutti i miei cugini significa più o meno perdere il conto intorno a cinquanta. Anche se cresci in una famiglia meno affollata della mia, hai l’occasione di scoprire presto che se c’è una cosa da cui non puoi sottrarti, è avere a che fare con i parenti che ti sono capitati. Ma cosa accadrebbe se potessimo avere un piccolo margine di manovra sui legami di sangue? Non dico cancellare quelli che ci sono già, ma provare ad arricchire la collezione casuale dei parenti in senso stretto con quelli che decidiamo di adottare. È così che negli anni, invece che procedere per sottrazione, mi sono ritrovata con zii acquisiti sul pianerottolo di casa, zii per telefono, zii lettori, zii musicisti, zii immaginari.
Ed è a quella parte di famiglia che ho scelto che ho pensato, appena finito di leggere La porta di Magda Szabó, perché in queste pagine ho ritrovato il mio stesso tentativo di aggrapparmi con legami arbitrari a persone speciali alle cui vite ho desiderato di appartenere. Dietro l’attaccamento morboso di Magda e Emerenc – le due protagoniste di questa storia senza tempo – si nasconde lo stesso desiderio di appartenersi pur abitando mondi incredibilmente lontani.
Ti sembra di vederle sulle rive opposte di un fiume, a tendersi la mano senza riuscire ad afferrarsi mai: Magda, la scrittrice, con il suo mondo fatto di libri, che sa cosa deve fare solo sui fogli di carta; Emerenc che non conosce altra realtà che la fatica della schiena e delle mani, con quella saggezza tipica delle persone di poche parole e un’energia che non ammette riposo, che è diffidente, solitaria, irrigidita dagli avvenimenti di una vita così diversa da quella trascorsa dietro i tasti di una macchina da scrivere. Emerenc che è capace di ferire con il suo silenzio impenetrabile – «perché per una persona è molto più doloroso sentirsi indegna persino di una parola, di una domanda, di una spiegazione» – e Magda che accoltella con una risposta tagliente e non conosce rispetto per la vergogna. Emerenc con quel suo modo di essere impenetrabile e un amore verso il prossimo che si esprime preparando un piatto caldo o spalando la neve sul vialetto di casa. Magda con la sua fragilità e quella paura terribile di riuscire a essere con gli altri nulla di più che cordiale. Emerenc l’eroina granitica che ha fatto della solitudine la sua scelta di vita, eppure sa bene che «non vale la pena vivere se non hai nessuno felice d’aspettarti quando rincasi»; Magda che si ritrova a chiedersi quanto nel proprio modo di essere sia sincero e quanto recitato a memoria per educazione.
Quando due donne così diverse si incontrano e si guardano negli occhi, a stento riescono a decifrarsi, eppure non possono fare a meno di tendersi la mano. Quello che di prezioso ho trovato in questa storia è l’incontro tra due solitudini, l’amore impossibile tra due anime affini intrappolate in esistenze inavvicinabili. Un amore che per paura di farsi male diventa tanto più forte quanto più ci si tiene a distanza. Un amore che si consolida intorno a un segreto, una volta concesso di aprire quella porta che solo a pochi è dato il privilegio di varcare. Trascorreranno insieme vent’anni di vita e alla fine avranno imparato due grandi verità l’una dall’altra: Magda da Emerenc che «non bisogna mai amare nessuno perdutamente perché altrimenti si causa la sua rovina», Emerenc da Magda che «una passione non si può esprimere pacatamente, disciplinatamente, morigeratamente, e nessuno può definirne la forma al posto di un altro».
Mi rammarico di aver conosciuto Magda Szabó tanto tardi, ma in fondo è bello che scrittrici così immense si incontrino solo a un certo punto del percorso, come una perla scoperta per caso, un dono straordinario per lettori ostinati.
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