Nutrirsi di inutile per sopravvivere

Marcel Bénabou, Perché non ho scritto nessuno dei miei libri (Theoria)

[Per i giorni in cui non si può fare a meno di scrivere
Consiglio di lettura: Marcel Bénabou, Perché non ho scritto nessuno dei miei libri (trad. A Pasquali), Theoria, 1991
Consiglio d’ascolto: Edith Piaf, Mon manège à moi
Consiglio in infusione: tisana alla liquirizia]

Cos’è che fa di uno scrittore uno scrittore? Ha più valore per l’ingresso nell’olimpo delle Lettere la consegna ai posteri del feticcio dell’opera compiuta, la conquista del posto su uno scaffale a tempo determinato, o piuttosto il lavorio estenuante di una vita, fatto di ripensamenti e continue riscritture, alla ricerca della propria voce?

Ho incontrato Perché non ho scritto nessuno dei miei libri in maniera del tutto fortuita, riconoscendo tra pile di libri impolverati il nome di un editore che ha avuto vita breve, ma la cui luce riesce a risplendere ancora sui banchetti dell’usato. Non avevo mai sentito parlare di Marcel Bénabou, ma ora che me ne sono innamorata aggiungo al piacere della scoperta il conforto di sapere che è ancora in vita – il che, in questi tempi orfani di punti di riferimento, mi sembra una cosa degna di nota.

Dopo averlo letto, mi sono chiesta se ci fosse davvero bisogno di scrivere su un libro in cui si scrive dello scrivere, ma poi ho pensato che cedere alla tentazione di chiudere il cerchio (o rincorrere il gatto finché cerca di acchiapparsi la coda) sarebbe stato il modo più divertente di continuare il gioco da cui sono stata catturata.

È lecito aspettarsi da un libro che mette insieme una serie di buoni motivi per smettere di scrivere – o per non provarci affatto – che si svolga come un elogio funebre della scrittura o un noioso esercizio di stile. Invece Bénabou è riuscito a fare l’opposto: rappresentando la parodia impietosa dello scrittore nell’atto di scrivere ricominciando ogni volta da capo, riesce a celebrare la scrittura scrivendo dell’impossibilità di scrivere.

La costruzione di Bénabou è un artificio, un gioco metaletterario, ma questa finzione è tanto più istruttiva nel tempo liquido che viviamo, in cui i tre quarti della nostra vita si svolgono su un palcoscenico virtuale, di fronte a una platea giudicante per cui un pollice alzato in più o uno in meno può fare la differenza rispetto al posto che occupiamo nel mondo. Il guaio di questa ansia da prestazione senza precedenti che ci siamo autoinflitti è che non ci è più consentito il lusso di essere speciali, perché fare i conti con la vergogna di avere un sogno e ammettere a sé stessi che sono le cose inutili a tenerci in vita, è un’attività costosa che ci si può permettere solo se si è parecchio fortunati.

Mai come oggi, un bravo scrittore (o aspirante tale) credo debba convivere con la necessità di esorcizzare il demone della scrittura e – a dispetto di tutti gli insipidi decaloghi di regole che pretendono di svelare il segreto della scrittura come una ricetta preconfezionata – il libro di Bénabou fa riflettere sul fatto che è assai più lunga la lista dei buoni motivi per smettere di scrivere, piuttosto che per iniziare. Con la sua capacità di celare, dietro una scrittura finissima e cinica, la fatica e l’umiltà del lavoro di scrittore-artigiano, sembra che Bénabou voglia dire a tutti noi con il pallino della scrittura: fermati un attimo, rileggi, cancella, continua a studiare e poi riprova. Per cui quello che rimane è un invito a prendere sul serio i propri sogni nel cassetto, una riflessione sul fatto che si cresce meglio e più in fretta procedendo per tentativi continui e fallimenti colossali. Ciò che conta è ricordare che anche i sogni richiedono allenamento, perché a forza di non sentirsene all’altezza, il rischio è che si finisca per disimparare a sognare.

Mentre vi invito a recuperare Perché non ho scritto nessuno dei miei libri, vi regalo il risvolto di copertina dell’edizione Theoria, che già da solo è un condensato di scrittura magistrale:

«Scrivere un libro per raccontare perché non si è mai scritto un libro: il primo paradosso Marcel Bénabou ce lo consegna già nel titolo di quest’opera divertente, improbabile, piena di deliziose incongruenze. La vena ludica e combinatoria – che gli deriva dalla frequentazione con i sofisticati congegni metaletterari dell’Oulipo – è però solo una delle tante maschere di scena dell’autore: più ancora che a un libro al quadrato, o a un iper-romanzo, quello di Bénabou assomiglia a una sorta di confessione ipocondriaca che ha per oggetto non il corpo, ma la Scrittura e, in particolare, due forme morbose che si potrebbero definire “la vertigine dell’Opera prima” e “l’allucinazione del Libro ultimo”. Al contrario di Shahrazàd che per sopravvivere era costretta a inventare un racconto al giorno, il nostro eroe deve inventare storie per procrastinare all’infinito il suo ingresso nel mondo della narrazione, e restare così appeso alla loquacissima onnipotenza dell’eterno esordiente. Perfezionista, colto, ossessivo, Bénabou enumera meticolosamente tutti gli ostacoli (logici, psicologici, epistemologici) che si frappongono tra lui e l’Opera: ed è un’impietosa autoanalisi che egli compie, una vitale dichiarazione di impotenza che parte dalle proprie esperienze più intime e arriva al centro della questione stessa della scrittura, ai principî ultimi che regolano l’artificio letterario.
Come quei pittori che amano rappresentare sé stessi sulla tela nell’atto di dipingere, Bénabou è qui a ricordarci che la letteratura è prima di tutto il luogo della finzione e dell’inganno, una specie di elegantissima finestra con ampia vista sul nulla.»

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