«Che vuoi fare da grande? L’assaggiatrice di Hitler»
Autunno del 1943. A Gross-Partsch, un villaggio vicino alla Wolfsschanze – la Tana del Lupo, il quartier generale di Hitler nascosto nella foresta – dieci donne siedono a tavola in attesa di ricevere il pranzo. Mangiano tutti i giorni per tre volte al giorno, il che è un privilegio per quegli anni in Germania, in cui si muore di fame a causa della guerra. Un privilegio che tiene in vita, ma al tempo stesso la mette a rischio un boccone dopo l’altro, perché è a un banchetto con la morte che queste donne sono invitate, cavie al servizio del Führer per garantirgli di non essere avvelenato a ogni pasto.
«Ad ascoltarlo con gli occhi chiusi, il suono della mensa sarebbe stato un suono buono. Il tinnire delle forchette sui piatti, il fruscio dell’acqua versata, il rintocco del vetro sul legno, il ruminare delle bocche, l’acciottolio di passi sul pavimento, l’accavallarsi di voci e versi di uccelli e cani che abbaiano, il rugghio distante di un trattore colto dalle finestre aperte. Sarebbe stato nient’altro che il tempo del convivio; fa tenerezza il bisogno umano di cibarsi per non morire.
Ma se riaprivo gli occhi li vedevo, i guardiani in divisa, le armi cariche, i confini della nostra gabbia, e il rumore di stoviglie tornava a riecheggiare scarno, il suono compresso di qualcosa che sta per esplodere».
Da qualche mese è in libreria per i tipi di Feltrinelli Le assaggiatrici, il romanzo con cui Rosella Postorino ha dato voce alla storia (inventata) di Rosa Sauer, ispirata a quella (vera) di Margot Wölk, che in gioventù fu assaggiatrice di Hitler nella caserma di Krausendorf e sopravvissuta fino all’età di novantasei anni – appena qualche giorno prima che l’autrice riuscisse a procurarsi il suo indirizzo per incontrarla.
È la vicenda di una persona comune che si intreccia con le pagine della Storia, e ripercorre da un’altra angolazione un momento del nostro passato prossimo che non sembra mai essere stato raccontato abbastanza. Incontriamo Rosa mentre lascia Berlino per sfuggire ai bombardamenti che le hanno portato via il padre e la madre, per trovare rifugio dai suoceri, poiché suo marito è in guerra sul fronte russo. Poco dopo il suo arrivo al villaggio, è convocata come assaggiatrice di Hitler: «Mi ero resa disponibile a morire per il Führer. Ogni giorno il mio piatto, i nostri dieci piatti allineati, evocavano la sua presenza come in una transustanziazione. Nessuna promessa di eternità: duecento marchi al mese, questo era il nostro compenso».
Dieci piatti allineati che continuano a riempirsi di pietanze succulente e potenzialmente mortali che si susseguono come in un’ossessione: «Alle undici del mattino eravamo già affamate. Non dipendeva dall’aria di campagna, dal viaggio in pulmino. Quel buco nello stomaco era paura. Da anni avevamo fame e paura». Intorno a quella tavola dieci donne mangiano in silenzio, si scrutano, giorno dopo giorno si conoscono fino a che dalla loro convivenza forzata prende vita una piccola comunità: «Succede a scuola, o sul posto di lavoro, nei luoghi in cui si è obbligati a passare tante ore della propria esistenza. Si diventa amiche, nella coercizione».
Rosa fa i conti ogni giorno con il suo non essere «una buona tedesca»: non è abbastanza tedesca da cedere al mito del Führer, eppure è vigliacca a sufficienza per non ribellarsi. Non riesce a mantenere fede alla «condizione che tutti si aspettavano da me, quella di una moglie in pena», non trova altro espediente per tirare avanti che lasciarsi vivere, lasciare che siano gli altri ad agire al posto suo: «Perché, da tempo, mi trovavo in posti in cui non volevo stare, e accondiscendevo, e non mi ribellavo, e continuavo a sopravvivere ogni volta che qualcuno mi veniva portato via? La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana».
Le sue non-scelte, le sue non-azioni rendono Rosa un personaggio tanto vero quanto odioso, e non si può fare a meno di appassionarsi alla sua storia, di perdere il sonno insieme a lei poiché «somiglia troppo alla morte, perché ci si possa fidare»; è impossibile non essere spinti in avanti dalla curiosità morbosa di scoprire con quali sembianze la morte tornerà a fare capolino tra le pagine.
Leggendo Le assaggiatrici di Rosella Postorino si ha l’occasione di riflettere su come l’esperienza della guerra arrivi a trasformare le persone al punto da far dimenticare chi si era prima che fosse iniziata. E soprattutto ci si accorge di come, in mezzo tra il bene e il male, ci sia spazio per tutte le declinazioni della paura, dell’odio, dell’attesa e della speranza.