Non incontravo una partita a scacchi in un libro dalle pagine di Pontiggia e Bontempelli. Mai avrei immaginato di ritrovarla qui, ora che è di nuovo estate e io cerco nelle parole un conforto che non riesco a trovare altrove. Eppure non c’è consolazione in questo racconto che maneggia il dolore come una materia oscura e molle, da restare appiccicata alle dita.
È una storia (un memoir?) che finisce di continuo, mentre si chiede dove comincia la fine, che si apre e si chiude dicendo non so. Racconta di un figlio e di un padre-giardino, della terra che seppellisce e ridona indietro la vita in germogli, foglie e radici. Di fiori come periscopi segreti, attraverso cui chi è di là può continuare a sbirciare chi è rimasto di qua. Di felicità che dura poco, come lo spendore dei narcisi e dei gigli. Di pagine di quaderno riempite di motivi per cui vale la pena vivere. Di tutte le volte che seppelliamo chi ci ha messo al mondo, per allontanare il momento in cui dovremo farlo davvero. Di tutte le cose che la morte ha in comune con la vita, come il suo essere fatta di prime volte: il primo Natale, il primo compleanno, il primo viaggio da quando non ci sei.
È una storia (un romanzo?) che si domanda se esistiamo ancora quando se ne va l’ultima persona che ci ricorda bambini. E perché mai nessuno ci insegna a invecchiare, invece che a cercare, fallendo, di ingannare lo scorrere del tempo. Una storia (un diario?) in cui ci si accorge che crescere allontana dalle cose e le rimpicciolisce, proprio come accade dentro un giardino. Che è più semplice, quando siamo alti come le rose e i tulipani, guardare il mondo da vicino, perché siamo alla sua altezza e lui alla nostra. Che il più delle volte si arriva in fondo alla partita senza aver imparato le regole del gioco.
Una storia (comunque vogliate chiamarla) che dovreste leggere, per scoprire che è proprio come dice Georgi Gospodinov: quando serve, le parole ci trovano.
Il giardiniere e la morte è pubblicato da Voland nella traduzione di Giuseppe Dell’Agata.