Dentro il giardino

Non incontravo una partita a scacchi in un libro dalle pagine di Pontiggia e Bontempelli. Mai avrei immaginato di ritrovarla qui, ora che è di nuovo estate e io cerco nelle parole un conforto che non riesco a trovare altrove. Eppure non c’è consolazione in questo racconto che maneggia il dolore come una materia oscura e molle, da restare appiccicata alle dita.

È una storia (un memoir?) che finisce di continuo, mentre si chiede dove comincia la fine, che si apre e si chiude dicendo non so. Racconta di un figlio e di un padre-giardino, della terra che seppellisce e ridona indietro la vita in germogli, foglie e radici. Di fiori come periscopi segreti, attraverso cui chi è di là può continuare a sbirciare chi è rimasto di qua. Di felicità che dura poco, come lo spendore dei narcisi e dei gigli. Di pagine di quaderno riempite di motivi per cui vale la pena vivere. Di tutte le volte che seppelliamo chi ci ha messo al mondo, per allontanare il momento in cui dovremo farlo davvero. Di tutte le cose che la morte ha in comune con la vita, come il suo essere fatta di prime volte: il primo Natale, il primo compleanno, il primo viaggio da quando non ci sei.

È una storia (un romanzo?) che si domanda se esistiamo ancora quando se ne va l’ultima persona che ci ricorda bambini. E perché mai nessuno ci insegna a invecchiare, invece che a cercare, fallendo, di ingannare lo scorrere del tempo. Una storia (un diario?) in cui ci si accorge che crescere allontana dalle cose e le rimpicciolisce, proprio come accade dentro un giardino. Che è più semplice, quando siamo alti come le rose e i tulipani, guardare il mondo da vicino, perché siamo alla sua altezza e lui alla nostra. Che il più delle volte si arriva in fondo alla partita senza aver imparato le regole del gioco.

Una storia (comunque vogliate chiamarla) che dovreste leggere, per scoprire che è proprio come dice Georgi Gospodinov: quando serve, le parole ci trovano.

Il giardiniere e la morte è pubblicato da Voland nella traduzione di Giuseppe Dell’Agata.

Vedi alla voce pendolare

Björn Larsson è un pendolare. Uno di noi, che attraversiamo banchine, tornelli e confini, avanti e indietro sui mezzi pubblici a intervalli regolari. Per nostra fortuna è anche uno scrittore, e ha saputo trovare le parole per raccontare quello che sperimentiamo, a ogni latitudine, da un capolinea all’altro.

Quando ho avuto l’occasione di conoscerlo, gli ho detto che sono una pendolare al quadrato. Perché non solo vivo in provincia e lavoro in città, ma sono una migrante e di tutto ciò di cui ha scritto – treni, aerei, autobus, metro, tram, ponti e traghetti – non c’è niente che non abbia sperimentato.

Lo sappiamo tutti, e Björn Larsson non fa eccezione, che la vita del pendolare è un esercizio continuo, sfiancante, di perseveranza. Ma è stato divertente scoprire quante cose abbiamo in comune, oltre a un certo disprezzo per le automobili e il malcontento quotidiano per il freddo, la pioggia, gli imprevisti, le attese, gli scioperi, le corse cancellate, i ritardi. Per esempio, quello strano conforto che proviamo nel disporre di una porzione di tempo sospeso che, quando la sorte ci assiste con il privilegio di un posto a sedere, diventa un rifugio per leggere, un pretesto per guardare fuori dal finestrino e lasciare correre i pensieri.

Soprattutto, Björn Larsson ha dato voce a un’idea su cui non avevo riflettuto abbastanza: la vita del pendolare si può scegliere e non solo subire, pur con tutti i suoi disagi, per mettere una distanza di sicurezza tra il lavoro e la casa, tra il movimento e il riposo, tra la solitudine e lo stare con gli altri.

Leggendo queste pagine ho ritrovato linee di autobus che passano dalle mie parti, scrittori che occupano un posto speciale sui miei scaffali – Fabio Stassi, per dirne uno, che non sapevo scrivesse i suoi libri in treno – e ho colto un invito alla solidarietà tra anonimi compagni di sventura. Ché a concedersi un sorriso, in mezzo agli sguardi torvi delle 7 del mattino, aumentano le possibilità di riceverne indietro un altro.

Se anche voi siete dei nostri, fareste bene a procurarvi Filosofia minima del pendolare (Iperborea) e godervi il viaggio.

A Roccamare

La scrivania delle Lezioni americane, quella dove Italo Calvino se ne stava appollaiato a scrivere, nella sua casa al mare, dopo essersi inerpicato su per una scala pericolosissima: ho portato in viaggio con me Ultima estate a Roccamare per concedermi il regalo di immagini come questa e altre in cui non mi era ancora capitato di imbattermi.

Ho scoperto, per esempio, che Italo comprava i vestiti al mercato; che di giorno si poteva vederlo in giro con i sacchetti della spesa sul manubrio della bici o a mangiare sarde con l’aceto in piazza; di notte a camminare in spiaggia, i pantaloni azzurri e la camicia chiara, con in mano una torcia e una mappa delle costellazioni. Ho trovato conferme su idee che mi ero fatta altrove: che era «una persona che ti chiedeva scusa lui», che la sua leggerezza è sopravvalutata, che Palomar è il personaggio che più gli somiglia, che le sue parole magiche erano echi d’infanzia – beudo, ubago.

Tra queste pagine non incontrerete solo Italo Calvino, perché nella pineta di Roccamare si aggira un gruppo di anime a cui potreste già essere affezionati – Natalia Ginzburg che non sapeva nuotare, Pietro Citati che guidava come un pazzo – o che potrebbe venirvi voglia di andare a cercare – Rosetta Loy che amava Cesare Garboli, Alberto Savinio e Giovanni Mariotti che presto o tardi anch’io mi deciderò a leggere.

Ma il cuore di questo libro resta il quartetto delle sere d’estate: Calvino, Citati, Fruttero, Scarpelli. Discutevano spesso, il più delle volte non di libri: «Il nostro linguaggio, quando ci capitava (raramente) di parlare di letteratura, era ridotto a poche formule banalissime: “Cammina?”, “Prende?”, “Sta in piedi?”, “Funziona?”» (Fruttero). Leggevano sempre: «Mi faceva leggere tutto, è stato così fino alla fine. Quando è morto stava scrivendo un libro sui cinque sensi, mi aveva fatto leggere il racconto sull’olfatto» (Citati). Partivano per gite in barca anche se nessuno ne possedeva una, noleggiando vecchi pescherecci riadattati.

Dovreste leggere Ultima estate a Roccamare di Alberto Riva (Neri Pozza) non come si leggono le storie di morti, ma come si sfoglia un album di fotografie piene di sole, che profumano di pini e rosmarino.

L’eredità di Grazia Cherchi

Grazia Cherchi è tornata. A lei devo una lunga serie di innamoramenti letterari che è iniziata con Descrizioni di descrizioni di Pier Paolo Pasolini e una lista di letture che non ho ancora esaurito, anni dopo essere salita a bordo del suo Scompartimento per lettori e taciturni: lo ricordo come uno dei miei passaggi obbligati per definire la persona che legge che sono poi diventata.

La sua è stata una vita dedicata ai libri, come giornalista, editor e curatrice editoriale, prima ancora che scrittrice. A lei e Piergiorgio Bellocchio dobbiamo l’esperimento dei “Quaderni piacentini” che ha tracciato una diversa idea di letteratura tra gli anni Sessanta e Settanta. Alle sue cure (al suo fiuto e alle sue forbici) le storie di Baricco, Benni e tanti altri che sono ancora sugli scaffali.

È stata un esempio di dedizione alla parola schietta e senza fronzoli, ha sempre creduto che la letteratura non dovesse avere a che fare con la noia ma con l’intelligenza, ha sempre scartato il troppo per scegliere l’essenziale. Ci ha insegnato un modo di intendere il mestiere dei libri come forma di rispetto e di amore per le parole, come una salda presa di posizione dalla parte di chi legge.

Fatiche d’amore perdute è il suo unico romanzo, dato alle stampe nel 1993, due anni prima della sua morte e sette dopo i racconti di Basta poco per sentirsi soli – che è uscito nel 1986 per l’editore Tringale e oggi si trova nel catalogo di Papero Editore e in qualche copia di E/O tra l’usato.

Non so dirvi se sia il romanzo migliore che leggerete quest’anno, ma quello che è certo è che le sue pagine – che minimum fax ha riportato in libreria, accompagnate dalle parole di Fabio Stassi e Daria Bignardi – sono un invito a tornare a parlare di lei, per conoscerla e riscoprire l’eredità che ci ha consegnato.

Un inventario di sentimenti

Ci ho messo dieci anni per iniziare a leggere i Sillabari – il finito di stampare della mia copia è del 2013 – e quasi un mese per arrivare in fondo all’inventario dei sentimenti umani che Goffredo Parise ha scritto per il Corriere della Sera tra il 1971 e il 1980. Credo non sia dipeso tanto da me né dai giorni concitati che hanno accompagnato, quanto piuttosto dalla densità di queste pagine che mi ha richiesto una pausa tra un racconto e l’altro, per riuscire a lasciar andare e ricominciare ogni volta da capo.

Penso ai giorni e agli anni che mi ci sono voluti, al durante ma soprattutto al prima, perché ho l’impressione che solo così avrei potuto leggere questi Sillabari: lasciando che mi insegnassero quanto è importante aspettare.

«Dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa. Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore.»

Sillabari, Goffredo Parise