L’eredità di Grazia Cherchi

Grazia Cherchi è tornata. A lei devo una lunga serie di innamoramenti letterari che è iniziata con Descrizioni di descrizioni di Pier Paolo Pasolini e una lista di letture che non ho ancora esaurito, anni dopo essere salita a bordo del suo Scompartimento per lettori e taciturni: lo ricordo come uno dei miei passaggi obbligati per definire la persona che legge che sono poi diventata.

La sua è stata una vita dedicata ai libri, come giornalista, editor e curatrice editoriale, prima ancora che scrittrice. A lei e Piergiorgio Bellocchio dobbiamo l’esperimento dei “Quaderni piacentini” che ha tracciato una diversa idea di letteratura tra gli anni Sessanta e Settanta. Alle sue cure (al suo fiuto e alle sue forbici) le storie di Baricco, Benni e tanti altri che sono ancora sugli scaffali.

È stata un esempio di dedizione alla parola schietta e senza fronzoli, ha sempre creduto che la letteratura non dovesse avere a che fare con la noia ma con l’intelligenza, ha sempre scartato il troppo per scegliere l’essenziale. Ci ha insegnato un modo di intendere il mestiere dei libri come forma di rispetto e di amore per le parole, come una salda presa di posizione dalla parte di chi legge.

Fatiche d’amore perdute è il suo unico romanzo, dato alle stampe nel 1993, due anni prima della sua morte e sette dopo i racconti di Basta poco per sentirsi soli – che è uscito nel 1986 per l’editore Tringale e oggi si trova nel catalogo di Papero Editore e in qualche copia di E/O tra l’usato.

Non so dirvi se sia il romanzo migliore che leggerete quest’anno, ma quello che è certo è che le sue pagine – che minimum fax ha riportato in libreria, accompagnate dalle parole di Fabio Stassi e Daria Bignardi – sono un invito a tornare a parlare di lei, per conoscerla e riscoprire l’eredità che ci ha consegnato.

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