Un caffè con lo scrittore

John Freeman, Come leggere uno scrittore (Codice Edizioni)Inizio a farci caso da qualche tempo, che una dedica che mi colpisce è l’indizio di una lettura in grado di lasciare il segno. «Questo libro è per mio padre, che faceva le domande difficili»: così si apre Come leggere uno scrittore di John Freeman (Codice Edizioni, 2017) e già le prime pagine confermano il mio sospetto.

Non credo di dovermi dilungare su chi sia John Freeman – che fino al 2013 ha diretto l’edizione americana di “Granta”, scrive per la “New York Times Book Review” e cura la rivista “Freeman’s”. Il testo che preludia le sue interviste raccolte in questo volume, si apre con una confessione, con il racconto di un’ossessione di lettura che lo ha portato a incontrare la sua vocazione a scrivere: «Avevo inghiottito Updike tutto intero, e ne avevo sputato le ossa».

Ripercorrendo i suoi inizi nel campo della scrittura, Freeman mette in guardia dal rischio che si corre «quando un lettore si rivolge a uno scrittore, o a un suo libro, per ottenere le soluzioni ai propri problemi»: di violare gli spazi di entrambi, di «incatenare troppo la vita di un autore alle sue opere, o di intestardirsi nella convinzione che un romanzo possa sostituire il nostro essere destinati a commettere errori e a pagarne le conseguenze».

Come leggere uno scrittore è un atlante di incontri letterari, una collezione di brevi incursioni nelle vite di scrittori americani contemporanei: David Foster Wallace, Siri Hustvedt e Paul Auster, Kazuo Ishiguro, Oliver Sacks, Philip Roth, Dave Eggers, Joyce Carol Oates, Don DeLillo, Norman Mailer, Margaret Atwood, Geoff Dyer, per citare solo alcuni dei più interessanti e a me noti. Ciascuna biografia è corredata da un ritratto di W.H. Chong.

Come leggere uno scrittore è una lettura che si presta agli spizzichi e ai bocconi, ma che si finisce per divorare tutta intera per il continuo senso di non averne abbastanza che si ha alla fine di ogni intervista.

In questo libro si incontrano Siri Hustvedt e Paul Auster nel loro tranquillo appartamento a Brooklyn, quell’officina creativa che Freeman definisce «la più prolifica industria letteraria d’America», dove si producono a gran velocità opere di narrativa, di saggistica, sceneggiature e album musicali. Marito e moglie «si stuzzicano a vicenda, concludendo l’uno le frasi dell’altra» e non riescono a lavorare sotto lo stesso tetto – «Auster non ha l’aria di uno di quegli scrittori che amano lavorare in uno studio inondato di luce» – ma si leggono sempre a vicenda i passi dei libri man mano che li stanno scrivendo.

Sentendo raccontare di Geoff Dyer, viene voglia di perdersi come lui nell’esplorazione di nuove città: «Ogni volta che Geoff Dyer si sente intrappolato nella routine, prende armi e bagagli e si mette in viaggio». E Dyer non nasconde il sentimento che accompagna la scrittura di ogni suo nuovo libro, mentre è costretto a fare i conti con le etichette “narrativa” e “saggistica” che pretendono di imbrigliare il suo stile: «Diciamo che stai scrivendo un romanzo… Sta andando bene, sta andando male… non importa; comunque sia sai che alla fine sarà un romanzo. La mia ansia è raddoppiata dal fatto che io non ho la più pallida idea di che cosa diventerà». L’intervista lo ritrae nel momento in cui sta scrivendo un saggio sulla fotografia che tento – senza successo – di procurarmi da tempo, L’infinito istante: «Non riesco proprio a capire dove andrà a finire».

Sulla scrivania di Margaret Atwood si scorge «una piccola penna dalla forma bizzarra», una LongPen, che permette di firmare a distanza le copie dei suoi libri: «Mi piace dire che l’inchiostro è in un’altra città». E si legge una pagina di storia quando l’autrice racconta gli inizi della sua carriera letteraria: «Negli anni sessanta e settanta alcuni dei posti in cui andavo non avevano neanche le librerie. Quindi portavi i tuoi libri agli incontri nelle palestre delle scuole, li vendevi, facevi cassa, mettevi i contanti in una busta e li portavi all’editore».

John Freeman sbircia tra le abitudini di scrittura di un’autrice dalla produzione sconfinata come Joyce Carol Oates: «Quando arrivo alla fine di un libro, riscrivo l’inizio e il finale insieme. Per me scrivere significa questo». E ci racconta che le sue opere ancora da pubblicare sono custodite in uno stanzino in cui la scrittrice tiene una cassettiera a prova d’incendio: «In teoria, se la casa prendesse fuoco, almeno le nostre volontà dovrebbero salvarsi».

Tra queste pagine torna in vita un settantaquattrenne Oliver Sacks, ritratto nel momento in cui ha appena finito di scrivere un libro a cui sono particolarmente legata, Musicofilia. Si incontra il neurologo-scrittore seduto nel suo studio di Manhattan «con le scarpe da ginnastica, i pantaloni della tuta e un pullover»: «La parte più usata dello studio è la sua sedia girevole, che rivela con esattezza l’umore e il livello di interesse del suo occupante. Quando risponde a una domanda su di sé, Sacks si gira leggermente di lato; invece, quando gli si racconta una storia, un aneddoto o qualcosa di interessante, si rigira e si sporge in avanti, il testone barbuto e gli occhi strizzati improvvisamente vispi e attenti».

Per me che di letteratura americana contemporanea conosco solo lo stretto indispensabile, Come leggere uno scrittore si è rivelata una guida ricchissima di spunti per partire all’esplorazione di territori che non ho ancora battuto. Ma sono sicura che chi ha più familiarità di me con questi scrittori avrà la sensazione di incontrare dei vecchi amici che fanno capolino dagli scaffali pieni di storie da leggere.

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