Anni felici

Dev’essere così che funziona: un posto ti appartiene quando inizi a collezionarci dei ricordi, quando instauri con le cose che lo abitano un rapporto che va oltre il semplice occupare uno spazio.

Così una specie di ossessione mi porta alla ricerca di tracce scritte dei luoghi in cui i miei miti hanno lavorato: spazi, stanze, scrivanie che in molti casi non esistono più, ma che provo a ricostruire mettendo insieme pagine su pagine.

Per alimentare le mie ossessioni sembrano essere stati scritti libri come questo, che mi ha portata a sentire l’aria che si respirava tra le stanze di casa Einaudi negli anni in cui vi hanno vissuto Pavese, Calvino, Ginzburg, Levi e tutti gli altri; a distinguere il ticchettio delle macchine da scrivere, il fruscio dei fogli, il ronzio delle parole ancora da trovare.

«L’Editore voleva creare intorno alle persone e agli oggetti uno spazio vuoto, un momento di silenzio, perché potessero riflettere, respirare. Lo spazio che dà risalto a pochi oggetti esemplari.»

Leggendo I migliori anni della nostra vita mi è sembrato di sbirciare senza essere vista quella «bizzarra tribù accampata nelle stanze di via Biancamano», di partecipare all’appuntamento delle diciotto del mercoledì, di scoprire cosa si provasse a lavorare al fianco di giganti che sapevano essere una squadra; di intuire il temperamento di ciascuno attraverso il modo di camminare, di sedere in poltrona, di aggrottare le sopracciglia, di stare di traverso al tavolo per scrivere. Di vivere insomma un tempo che non ho vissuto, ma a cui per qualche strana ragione sento di appartenere.

Temo che non avrò mai l’occasione di parlare con Ernesto Ferrero e di guardare aprirsi attraverso i suoi occhi i cassetti della memoria per lasciar uscire fuori qualche ricordo ancora. Posso però – e lo sto già facendo – continuare a gironzolare tra quelle stanze, attraverso il suo ultimo Album di famiglia.

Semmai lo incontrassi, sono certa che la prima cosa che gli direi è questa: grazie.

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La complessità delle cose

Nelle ore troppo piene, nelle settimane troppo lunghe, nei momenti troppo bui, ho la mia riserva di pagine di Italo Calvino a cui attingere per trovare conforto.

Così ho seguito Amerigo Ormea nella sua giornata da scrutatore e mi sono stupita di quanto una storia scritta per una generazione di sessant’anni fa abbia da dire alla mia, che soffre per le storture del mondo e cerca come può di raddrizzare la piccola parte di cui è responsabile: «Nella politica come in tutto il resto della vita, contano quei due principî lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire». Amerigo, parente prossimo di Marcovaldo e Palomar, ha ancora un piede nella realtà, ma la guarda già con disincanto: «La complessità delle cose alle volte pareva un sovrapporsi di strati nettamente separabili, come le foglie d’un carciofo, alle volte invece un agglutinamento di significati».

Con questo racconto Calvino aggiunge un tassello alla «rappresentazione e commento della realtà contemporanea» che aveva inaugurato con La speculazione edilizia e La nuvola di smog: «Avevo in animo, allora, di fare una specie di ciclo che avrebbe potuto intitolarsi A metà del secolo, insomma di storie degli anni ’50, a segnare un trapasso d’epoca».

Ancora oggi, le sue parole dicono qualcosa di noi che le citiamo – spesso a sproposito, come il passaggio che descrive l’amore di un padre in visita al figlio malato:

«Quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari.
E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore.
E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo».

A prendere le distanze dal mondo, Amerigo si accorge – e noi con lui – che appartiene alla stessa natura umana di cui tutti siamo fatti; che i sentimenti sono lacci che legano (dolorosamente) le persone; che nei libri cerchiamo una spiegazione; che forse ciò che conta in ogni cosa «è solo il momento in cui comincia, in cui non esiste che il futuro».

Ma soprattutto, che a sperimentare la difficoltà di esistere non siamo soli: «Non sapeva cosa avrebbe voluto: capiva solo quant’era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere».

La giornata d’uno scrutatore, Italo Calvino (Einaudi, 1963)

La vita alla finestra

«Ci sono solitudini che si rivelano all’improvviso, come un colpo alla nuca. Pensi: sono solo. Non ora. Sempre. Solo. Questa parola afonica, rotonda. Ci sono anche le solitudini lente, quelle che si formano con il tempo. Ce ne sono altre che erano lì fin dall’inizio, quelle di cui siamo fatti. Di solito restano larvate sotto qualche ricordo difficile. Ogni tanto queste solitudini si svegliano, si raddrizzano e ti parlano all’orecchio. Allora senti dei segreti su te stesso. Inoltre, esiste, sai?, la solitudine di cui, a forza di provarla e di frequentarla a tutte le ore, finisci per avere bisogno come di una fedele, discreta compagnia. Una solitudine quasi amata che, quando se ne va, ci lascia soli per davvero.»

Andrés Neuman, La vita alla finestra

«Forse ti scrivo proprio per questo: per appropriarmi delle mie parole.» Che ne è delle nostre parole quando le inviamo agli altri? Chi può dire fino a che punto ci appartengano, dopo che le abbiamo lasciate andare? Dove vanno a finire quelli che amiamo, o che abbiamo amato, quando smettiamo di esistere per loro? E cos’è che ci spinge davvero a scrivere: il bisogno di conservare nella memoria o di dimenticare?

Finisco di leggere questo romanzo con la testa piena di domande e quella strana frenesia che mi lasciano addosso le storie, quando arrivano a me senza che sapessi di averne bisogno. E mi ricordo che accade questo a incontrare la vera letteratura: si sente risuonare qualcosa di noi nelle trame degli altri, si ritrova espresso in parole ciò che a noi resta incastrato, informe, nel pensiero.

A sbirciare dentro questa finestra, non so se vi accorgerete delle stesse cose che ho visto io, ma di certo vi capiterà di pensare che la vita è quella cosa che accade mentre siamo impegnati a dimenticare chi siamo stati.

Andrés Neuman, La vita alla finestra (Einaudi editore, traduzione di Silvia Sichel, illustrazione di copertina di Andrea De Santis).

Libri sull’editoria: una lista collaborativa

Libri che parlano di libri e altre amenità editoriali

Vecchi caratteri tipografici

Non ci stanchiamo mai di parlare di libri, né di continuare a leggere (e accumulare) libri che parlano di libri e di editoria. E con l’intento di aggiungere qualche tessera all’inventario dei desideri che ci fanno vivere meglio, ho cercato di riunire i pezzi più importanti della mia collezione libresca.

Come tutte le selezioni, non ha la pretesa di essere esaustiva né di porsi come una guida, ma è semplicemente un modo per mettere nero su bianco quanto sono fiera delle (poche) cose che so e che possiedo. Noterete che – dove il libro non sia fuori catalogo – ho inserito un link di affiliazione: se ci passate per acquistare (anche qualsiasi altra cosa), a me arrivano degli spiccioli, con i quali mi procurerò ancora un libro per accrescere la lista.

Fatte queste premesse, vi do il benvenuto tra gli scaffali della libreria che mi sono più cari. Si accettano volentieri consigli, perché il bello è proprio che non si finisce mai.

Storia dell’editoria

Monografie

Einaudi

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«Editoria e no»: 87 anni della casa editrice Einaudi

Quello di fare i libri è un mestiere che, da sempre, ha a che fare con il resistere. Ma se c’è un’esperienza editoriale che più di altre lo dimostra, è quella della casa editrice Einaudi, che celebra oggi 87 anni di attività. Iniziava un mercoledì, il 15 novembre 1933, e di lì a qualche anno mercoledì sarebbe diventato sinonimo di un certo modo di progettare e discutere l’editoria, in memoria delle riunioni che si tenevano ogni settimana, dalle cinque del pomeriggio fino a sera inoltrata, attorno al tavolo ovale di via Biancamano.

L’esperienza di Einaudi è stata storia collettiva, perché capace di tenere insieme tante e diverse intelligenze, e anche resistenza, dove resistere – specie nei primi anni dell’impresa editoriale – è coinciso con un’ostinazione a rimanere vivi e continuare a lavorare, persino sotto i colpi della guerra.

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