Cosa leggeva Italo Calvino / 3

I libri nei libri: dai personaggi lettori alla “biblioteca ideale”

Esiste un sentiero per esplorare la biblioteca di Italo Calvino che non passa per la materialità degli scaffali nelle case che ha abitato, ma attraversa le sue pagine scritte e – a dispetto della reticenza dell’autore a parlare di sé – rende possibile scoprire molto del lettore che è stato, ripercorrendo i suoi scritti di critica e d’invenzione letteraria.

Sin dai primi esperimenti di scrittura, l’opera narrativa di Calvino è costellata di personaggi intenti a fare ordine tra i propri libri, un’attività a cui lo stesso autore era solito dedicare molto tempo. Come Pietro, il protagonista del racconto I figli poltroni, di fronte alla sua modesta collezione: «Continuo a riordinare quei pochi libri che ho nello scaffale: italiani, francesi, inglesi, o per argomento: storia, filosofia, romanzi, oppure tutti quelli rilegati insieme, e le belle edizioni, e quelli malandati da una parte». Il lettore Calvino si riflette anche nei tratti del barone rampante, con i suoi scaffali sospesi che reggono i tomi dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert insieme a «manuali d’arti e mestieri»: «Per tenere i libri, Cosimo costruì a più riprese delle specie di biblioteche pensili, riparate alla meglio dalla pioggia e dai roditori, ma cambiava loro continuamente di posto, secondo gli studi e i gusti del momento, perché egli considerava i libri un po’ come degli uccelli e non voleva vederli fermi o ingabbiati, se no diceva che intristivano».

Con l’idea che i libri non possano essere intrappolati, lo scrittore inizia a concepire i suoi «scaffali ideali» su cui i volumi non hanno il tempo di impolverarsi perché vengono spostati di continuo, descrivendo le orbite di un percorso in costante evoluzione. In un saggio del 1954, I capitani di Conrad, si legge: «Su questo mio scaffale ideale, Conrad ha il suo posto accanto all’aereo Stevenson, che è pure quasi il suo opposto, come vita e come stile. Eppure più di una volta sono stato tentato di spostarlo su un altro ripiano – meno sottomano per me – quello dei romanzieri analitici, psicologici, dei James, dei Proust, dei ricuperatori indefessi d’ogni briciola di sensazioni trascorse; o perfino su quello degli esteti più o meno maledetti, alla Poe, gravidi di amori trasposti; quand’anche le sue oscure inquietudini d’un universo assurdo non lo assegnino allo scaffale – non ancora ben ordinato e selezionato – degli “scrittori della crisi”. Invece l’ho tenuto sempre là, a portata di mano, con Stendhal che gli assomiglia così poco, con Nievo che non ci ha niente a che vedere».

Italo Calvino nella sua casa romana

Calvino concepisce la sua biblioteca per selezione e non per accumulo, come Amerigo Ormea in La giornata d’uno scrutatore: «Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere e ad evitare il superfluo». E l’esigenza di liberarsi dell’eccesso diventa tanto più pressante nel momento di inscatolare i propri libri per trasferirsi in una nuova città, come accade nel 1967, quando lascia Torino per Parigi.

Dallo scaffale francese si allontanano i modelli letterari della gioventù, mentre cresce la sua passione per Leopardi e per Galileo e compaiono nuovi riferimenti contemporanei: Borges, Valéry, Queneau, Perec. Fino a che vive a Parigi, con i libri «sempre un po’ qua un po’ là», la biblioteca di Calvino è ancora una mappa interiore – «quasi identificassi me stesso con una biblioteca ideale», dichiara in un’intervista a Valerio Riva nel 1974. Allo stesso modo che in Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Lo scrittore percorre con lo sguardo le costole dei volumi sugli scaffali, socchiude gli occhi, vede la letteratura universale rifrangersi indefinitamente, moltiplicarsi, dilatarsi». La letteratura gli appare come «un campo di vibrazioni, una galassia in espansione perpetua» e i suoi volumi sono raggruppati in un «insieme che non forma una biblioteca».

Italo Calvino nella sua casa di Parigi

Calvino ha l’abitudine di stilare liste e fermarsi di tanto in tanto per fare dei bilanci. Lo racconta in un breve scritto nella raccolta Collezione di sabbia: «Ogni tanto mi metto a fare un elenco degli ultimi libri che ho letto e di quelli che mi riprometto di leggere (la mia vita funziona a base di elenchi: rendiconti di cose lasciate in sospeso, progetti che non vengono realizzati)». E l’interesse per la ricerca di sistemi di pensiero sempre nuovi lo spinge verso i territori più disparati della conoscenza, come dimostra il gran numero di atlanti e mappe, libri di storia, etnologia, astronomia, fisica, che affollano le sue stanze di lettura. Sono testi che rispondono alla sua curiosità, ma sono anche funzionali a fornirgli modelli e spunti sempre originali per la scrittura letteraria, critica e teorica. Non la biblioteca di un bibliofilo o di un collezionista, dunque, ma quella di uno studioso e soprattutto di un appassionato lettore.

Man mano che si arricchisce il suo discorso critico e prende corpo una definizione di poetica, comincia a farsi largo l’idea di biblioteca come sistema. Scrive in un saggio del 1967 contenuto nella raccolta Una pietra sopra: «La letteratura non è fatta solo di opere singole ma di biblioteche, sistemi in cui le varie epoche e tradizioni organizzano i testi “canonici” e quelli “apocrifi”. […] Una biblioteca può avere un catalogo chiuso oppure può tendere a diventare la biblioteca universale ma sempre espandendosi attorno a un nucleo di libri “canonici”». E aggiunge: «La biblioteca ideale a cui tendo è quella che gravita verso il fuori, verso i libri “apocrifi”, nel senso etimologico della parola, cioè i libri “nascosti”. La letteratura è ricerca del libro nascosto lontano, che cambia il valore dei libri noti, è la tensione verso il nuovo testo apocrifo da ritrovare o da inventare».

Il centro di gravità della sua biblioteca – di ogni biblioteca – sono i classici, che per Calvino sono letture «formative nel senso che danno una forma alle esperienze future», come scrive in un articolo per L’Espresso del 1981 (Italiani, vi esorto ai classici). Lungi dall’operare «distinzioni d’antichità, di stile, d’autorità», «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» e ciascun lettore è tenuto a costruire la propria biblioteca senza imposizioni né percorsi prestabiliti perché «è solo nelle letture disinteressate che può accadere d’imbatterti nel libro che diventa il “tuo” libro». Per dirla ancora con le parole dell’autore: «Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali».

È sempre il piacere per la scoperta che lo accompagna nel momento di radunare i suoi spiriti guida per varcare la soglia del nuovo millennio: nelle Lezioni americane una sorprendente immagine di levità orienta le sue scelte, dal volo di Perseo agli improvvisi di Samuel Beckett. Sorretto dai suoi numi, Calvino guarda al presente e si prepara per un futuro che è capace di prevedere – ma che non avrà il tempo di incontrare – come il più poetico e forse anche il più autobiografico dei suoi personaggi: con la stessa trasognata lucidità con cui Palomar guarda un’onda, conta i fili d’erba, cataloga formaggi francesi o fa visita allo zoo all’ultimo esemplare di gorilla albino, il suo sguardo si posa sul mondo come su uno straordinario libro da leggere, nello sforzo incessante di «raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono».

Italo Calvino legge Palomar

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Cosa leggeva Italo Calvino / 2

I libri degli altri: dall’apprendistato partigiano a Einaudi

È un giovedì di maggio del 1942 quando Italo Calvino, non ancora ventenne, prende «una storica decisione: tirato fuori dal cassetto dove giaceva lo sgualcito manoscritto» di una sua raccolta di racconti, si presenta dall’editore Einaudi per proporne la pubblicazione: «Anticamera di quasi un’ora. Sfogli “Tempo” senza capire un accidente di quel che leggi… Impiegati, dattilografe che entrano escono. Signore che cosa desiderate? Io vorrei parlare col signor… Ah, dovrebbe arrivare a momenti, attendete. (Fuori dalla finestra dei muratori lavorano su un’impalcatura…) Chi devo annunciare? Oh, fa niente, tanto non mi conosce… Ecco: io ci avrei qui… Veramente noi non pubblichiamo libri di racconti; però vogliamo leggerlo… dateci il vostro indirizzo… sì, tra tre o quattro giorni vi faremo sapere qualcosa… piacere, signor Calvino, buongiorno».

Mentre racconta l’episodio in una lettera all’amico Eugenio Scalfari, non sa ancora che tra quegli uffici trascorrerà oltre trent’anni della sua vita, di qua e di là dalla scrivania dell’editore. Da qualche mese ha lasciato il nido familiare per frequentare senza troppo entusiasmo la Facoltà di Agraria a Torino, ma dovrà aspettare fino al 1945 prima di trasferirvisi stabilmente, perché gli eventi bellici lo costringeranno a spostarsi tra Firenze e Sanremo.

La formazione culturale, morale e politica di Italo Calvino si compie durante la guerra, la Resistenza e l’immediato dopoguerra. Ricordando gli inizi del suo percorso in un’intervista del 1979 a Marco d’Eramo dirà: «Quando ho cominciato a scrivere ero un uomo di poche letture, letterariamente ero un autodidatta la cui “didassi” doveva ancora cominciare. Tutta la mia formazione è avvenuta durante la guerra. Leggevo i libri delle case editrici italiane, quelli di “Solaria”».

Italo Calvino

Gli anni dell’apprendistato letterario sono documentati da una fitta rete di lettere, e soprattutto quelle a Eugenio Scalfari sono utili per ricostruire la biblioteca dello scrittore: «A poco a poco, attraverso le lettere e le discussioni estive con Eugenio venivo a seguire il risveglio dell’antifascismo clandestino e ad avere un orientamento nei libri da leggere: leggi Huizinga, leggi Montale, leggi Vittorini, leggi Pisacane: le novità letterarie di quegli anni segnavano le tappe d’una nostra disordinata educazione etico-letteraria».

Calvino aggiorna l’amico sui suoi progressi: «Ho letto Conversazione [in Sicilia] di Vittorini […]. Magnifico oltre che per lo stile “all’americana” anche per la profondità di pensiero»; «Ho letto i drammi marini e L’imperatore Jones di O’Neill. […] Adesso mi sento a posto nei suoi riguardi e posso metterlo accanto a Ibsen e a Pirandello tra i grandi drammaturghi dialettici». E dispensa a sua volta liste di consigli letterari: gli raccomanda di leggere Cesare Zavattini, T.S. Eliot (Assassinio alla Cattedrale), Ugo Betti (Frana allo scalo nord), Fernand Crommelynck (Cucu magnifique), James Joyce (Gente di Dublino).

L’esperienza della guerra partigiana agisce da detonatore della vocazione di Italo Calvino alla scrittura, come ricorderà in un’intervista del 1985: «Le circostanze mi scaraventarono nel mezzo di un mondo avventuroso e tragico che mi dette la giustificazione per scrivere. Avevo conosciuto e sperimentato il mondo che vedevo descritto nei libri di autori americani, come Hemingway e Dos Passos, che leggevo in quel periodo». Al rientro a Torino, non ha più dubbi su quale sia il destino cui andare incontro: lascia Agraria per iscriversi a Lettere e si dedica a una tesi su Conrad, autore al quale rimarrà legato per tutta la vita e che gli fornirà uno stimolo importante nella ricerca della propria voce.

Italo Calvino

È solo a partire dal 1946 che Italo Calvino comincia a «gravitare attorno alla casa editrice Einaudi» vendendo libri a rate, come racconta in una lettera ai genitori: «Ho parlato oggi a Einaudi in persona per l’impiego. Per un posto in redazione non c’è nulla da fare […]. Dovrei girare nelle fabbriche, nelle associazioni, negli uffici e cercare di sistemare libri e pubblicazioni della casa. Non un commesso viaggiatore, ma una specie di propagandista culturale, un mestiere per cui occorre un intellettuale, non un commerciante».

Il suo tirocinio editoriale coincide con un periodo di letture voraci. Scrive a Silvio Micheli nel 1946: «Se hai il sistema di farmi avere i libri gratuitamente dalle case editrici, io recensisco tutto quel che vuoi, anche l’orario ferroviario». Di lì a poco avvierà una collaborazione con diverse testate giornalistiche che gli permetterà di affinare lo spirito critico sugli autori che gli stanno più a cuore: Conrad, Hemingway, Nievo «e altri miei pallini», come scrive ad Alfonso Gatto nel 1947.

L’impegno con Einaudi diventa organico a partire dal 1950 e lo porterà a ricoprire in un arco di oltre trent’anni i ruoli di ufficio stampa, traduttore, dirigente e consulente editoriale: «Il massimo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento», dichiarerà nel 1979 a Marco d’Eramo. Un modo di intendere il mestiere di fare i libri che sarà vissuto sempre con la dedizione di una missione: «Sono uno che lavora (oltre che ai propri libri) a far sì che la cultura del suo tempo abbia un volto piuttosto che un altro. Credo molto in questo aspetto della mia vita», scrive nel 1964 a una giovane autrice, Antonella Santacroce, che gli propone in lettura alcuni suoi racconti.

Man mano che si intensifica la sua attività in casa editrice, si susseguono gli scambi epistolari con i colleghi scrittori e le lettere di Calvino diventano una miniera di suggerimenti di lettura. A Marcello Venturi, per esempio, scrive: «M’ha detto Natalia Ginzburg che doveva scriverti e le ho detto di mandarti dei libri. Le ho consigliato di mandarti Sherwood Anderson: Storia di me e dei miei racconti e Ragazzo negro di Wright. Guarda che l’Anderson è un gran bel libro e piacerà a te come è piaciuto a me. Perché è la storia di un narratore con tutto l’amore per il nostro fottutissimo mestiere, per la tecnica del nostro mestiere». A Elsa Morante nell’estate del 1950: «Passo dei pomeriggi a pancia al sole su certi scogli solitari, leggendo Thomas Mann, che parla molto bene di molte cose a me del tutto incomprensibili».

Italo Calvino

Preziosa per ricostruire un profilo dello scrittore e dell’uomo di editoria è la raccolta I libri degli altri – da tempo fuori catalogo – che documenta la fitta rete di corrispondenza con scrittori, traduttori, critici letterari, editori ed è uno spaccato sul fermento culturale della stagione più felice della narrativa letteraria del Novecento.

Scrive ad Anna Maria Ortese nel 1953, a proposito della raccolta che di lì a poco sarà pubblicata con il titolo Il mare non bagna Napoli: «Stia allegra: lei ha scritto un libro bellissimo, dovrebbe ridere e cantare tutto il giorno, per un anno di seguito, almeno! Se no, a cosa serve scrivere dei bei libri?». A Giovanni Carocci nel 1954 segnala «un maestro elementare di Racalmuto che mi sembra molto impressionante e interessante per “Nuovi Argomenti”» (Leonardo Sciascia). A Giuseppe De Robertis nello stesso anno: «Vorrei raccomandarle di leggere, se già non l’ha fatto, il Seminara, che a me pare un notevole libro [si riferisce a Disgrazia in casa Amato, uscito tra i Gettoni], con gran risalto su ogni altra cosa di quell’autore». Al traduttore Lev Veršinin nel 1957 consiglia, tra gli altri: Pavese, Vittorini, Cassola «che talvolta ricorda la limpida tristezza del Tolstoj di certi racconti»; Brancati, «il piccolo Gogol dell’Italia sotto il fascismo» e Landolfi, «il migliore “surrealista” italiano».

Lo scaffale torinese continua a riempirsi a gran velocità e tra i molti libri che Calvino riceve, come editore e come scrittore, opera una selezione rigorosa che deve rispondere inevitabilmente anche a esigenze di spazio. Alla sua morte, i libri della casa di Torino (in via Santa Giulia) saranno donati alla casa editrice Einaudi: tra oltre un migliaio di volumi raccolti in quindici scatoloni si trovano titoli di Borges, Julio Cortázar, Silvina Ocampo; libri italiani di Arbasino, Banti, Cassola, Gadda, Landolfi, Morante, Pasolini, Pavese, Sciascia, Tobino, Vittorini e molti altri. Una mole di titoli non semplicemente posseduti e collocati in libreria, ma funzionali al suo lavoro di scrittura perché costantemente consultati, citati, riletti, sfogliati.

Seduto alla sua scrivania nell’ufficio di via Biancamano, l’immagine più nitida ed emozionante dell’artigiano editoriale Italo Calvino è il ritratto che ne traccia Giulio Bollati – apparso nel 1993 nel volume Calvino e l’editoria:

«Amava la pagina (parlo sempre di quella “servile”) come una costruzione dell’architettura coerente e organica e dalla materia straordinariamente duttile e leggera. Misuratissimo negli avverbi (“togli tutti quegli affari in ‘ente’”), prediligeva l’aggettivo nitido (ma non amava se ne facesse abuso: pochi e traslucidi), e lavorava di bulino soprattutto sui verbi. Per un verbo esaustivo, che lo appagasse con la pregnanza della sua carica semantica (meglio se complessa, e dunque stratificata e naturalmente ambigua), era capace di alzare il capo dalla scrivania, abbandonarlo all’indietro e lasciar trasparire dal volto un’infantile sazietà.
Era il momento del “Lo abbiamo trovato”».

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Cosa leggeva Italo Calvino / 1

L’immaginario dello scrittore:
i libri d’infanzia e dell’adolescenza

C’è qualcosa di emozionante nel ripercorrere la biblioteca di un lettore alla luce del suo essere diventato una delle penne più importanti del nostro Novecento. Tanto più che, a leggere i racconti e i romanzi di Italo Calvino, nulla sembra trasparire del suo scrivere «con molta fatica» – come dirà a Costanzo Costantini in un’intervista del 1982 – perché le sue opere sembrano essere scaturite in maniera spontanea da uno squisito esercizio di lettura.

I libri di Italo Calvino rappresentano un’eccezione tra le biblioteche d’autore da un punto di vista materiale e geografico, dal momento che gli oltre settemila volumi conservati nella sua abitazione romana si presentano ancora come lui li ha lasciati: ordinati in doppie file tra scaffali di legno e di vetro in quasi tutte le stanze della casa e persino sulle scale, secondo un criterio di collocazione in cui era il solo a orientarsi. Una mole di libri che lo scrittore ha costantemente sottoposto a selezione per via dei suoi spostamenti tra le città che ha abitato, ma in cui è difficile distinguere nettamente le letture per diletto, per studio e per mestiere. Una biblioteca che oggi non è aperta al pubblico – a meno che non si trovi il coraggio di citofonare all’interno 6 di piazza Campo Marzio 5, dove il secondo campanello dall’alto a sinistra riporta ancora i nomi Calvino e Singer – ma che si può ricostruire tra le lettere, le interviste, gli scritti in cui l’autore l’ha raccontata.

Italo Calvino nella sua casa romana

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Biblioteche d’autore

Cosa leggevano gli scrittori

Trompe l’oeil che rappresenta le ante di una libreria appartenuta a Padre Giambattista Martini. Museo internazionale e biblioteca della musica di BolognaQuand’è che una collezione privata di libri diventa una biblioteca? Per provare a tracciare una soglia, occorrerebbe tener conto di una certa consistenza numerica e scomodare parametri di qualità, ma forse sarebbe utile ricorrere anche a trovate più fantasiose. Prendere a misura gli spazi, per esempio, e cercare di risalire al momento in cui, dalla libreria vera e propria, sia avvenuto lo sconfinamento verso altri luoghi del vivere domestico, o stabilire da che punto in avanti, dentro e fuori le pagine, si sia iniziata a tessere una rete di rimandi da farne un sistema.

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