Non bisogna mai scherzare con la Storia

Georges Perec, L’attentato di Sarajevo (nottetempo)Esistono innumerevoli modi per dirsi addio, così come per riapparire dai meandri polverosi della memoria, e L’attentato di Sarajevo di Georges Perec ne conosce almeno tre. Perché per arrivare alle stampe – postuma, nel 2016, per le Editions du Seuil – la prima prova narrativa dello scrittore francese ha dovuto affrontare un percorso tortuoso: dal dattiloscritto di una vecchia compagna di liceo di Perec, passando per la copia carbone di un esemplare posseduto dal pittore serbo Mladen Srbinović, fino a due fogli di bozza – conservati tra i libri rari del Fondo Georges Perec – che documentano un soggiorno dell’autore in Jugoslavia, dall’agosto al settembre del 1957.

L’attentato di Sarajevo – arrivato in Italia nel 2019 per i tipi di nottetempo, nella traduzione di Angelo Molica Franco – è il frutto di un lavoro di collazione tra ripensamenti, correzioni e cancellature, che consente di sbirciare attraverso l’officina dello scrittore, appena ventunenne al tempo della stesura. E dà un’idea del lavoro di cesello attraverso il quale Perec già iniziava a esercitare la sua ispirazione: basti pensare alle alternative vagliate e scartate fino a individuare la parola più congeniale, per esempio, quando per «l’orchestra del Palace sussurrava un valzer lento», «Perec aveva dapprima scritto “rovinava”. Poi ha aggiunto a margine la seguente lista: “bemollizzava sciroppava caramellizzava sussurrava infliggeva allungava scorreva gesticolava avvelenava ondulava inchinava vomitava inghiottiva”, e alla fine ha cerchiato “sussurrava”».

Dei modi per dirsi addio, è come se L’attentato di Sarajevo ne esplorasse uno diverso in ogni pagina, e farebbe bene a tenerlo presente chi si aspettasse da quest’opera una ricostruzione accurata dell’attentato ai danni dell’Arciduca Ferdinando e della consorte, da cui è scaturito il primo conflitto mondiale. A dispetto del titolo, infatti, la vicenda storiografica si inserisce in secondo piano rispetto all’intreccio che l’autore intende raccontare e che si muove entro il perimetro dei più classici quadrilateri amorosi: «Anna ama Branko e Branko ama Mila e Mila ama me», che parrebbe avere un fondamento autobiografico, stando alla nota dattiloscritta che correda le carte di Perec e che elenca gli avvenimenti che si susseguono giorno per giorno nel romanzo.

È l’autore stesso – o, per meglio dire, il narratore – a fornirci le chiavi per entrare dentro a L’attentato di Sarajevo dalla corretta angolazione: «Vivete come uno slavo le passioni che furono in gioco, e forse riuscirete a cogliere ciò che questa storia ha di tragico, di meravigliosamente tragico». E, con una serie di incursioni dentro la scrittura, a farci arrivare al cuore «di un processo, di un tipo un po’ particolare di processo» che consiste nel mettere su carta pezzi di memoria: «Devo scusarmi, se sono costretto a interrompermi così spesso. Preferirei mille volte poter raccontare una storia semplice, senza che gli avvenimenti debbano essere sempre messi in dubbio».

Più che la storia di un amore – del reticolo che scaturisce da diverse stratificazioni di amore – questo romanzo è il racconto, scomposto attraverso il ricordo, della forza dirompente e distruttiva di un sentimento dentro le vite degli esseri umani che si muovono e fanno congetture nello sconfinato territorio della possibilità.

L’attentato di Sarajevo si può leggere allora come pietra angolare di un monumento della letteratura francese del Novecento, andando a rintracciare i numerosi riferimenti e immagini letterarie di cui si nutre: da Apollinaire fino a Stendhal, che «avrebbe riconosciuto in noi Madame de Chasteller e Lucien Leuwen mentre camminano nel bosco dello Chasseur vert. Non sto scherzando: la nostra emozione era la stessa, come pure il nostro accordo e la nostra felicità».

Ma anche con il supporto di una guida all’ascolto, che inizia con l’attacco della Sesta Sinfonia di Beethoven e si snoda attraverso la voce di Billie Holiday e le celeberrime note di canzoni francesi come Les feuilles mortes, Barbara, En sortant de l’école e Mademoiselle de Paris.

Avendo l’accortezza di seguire solo una semplice avvertenza: «Non bisogna mai scherzare con la Storia».

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Sommersi dalle cose

horror vacui ‹òrror vàkui› (lat. «orrore del vuoto»). – Frase con la quale si espresse un concetto fondamentale della fisica aristotelica che, in polemica con la fisica democritea, asseriva l’inesistenza di spazî vuoti (la natura aborre dal vuoto); si ripete talvolta con allusione alla tendenza a eliminare ogni spazio vuoto nell’ornamentazione, nell’arredamento e simili. [Treccani.it]

Quanto le cose che possediamo – o che desideriamo possedere – contribuiscono a definire la nostra identità e il posto che occupiamo nel mondo? Quanto siamo inclini a procrastinare la vita che vorremmo, in attesa di quello che non possiamo permetterci?

Mi capita di pensarci ogni volta che riordino le mie cose, la libreria, la scrivania, l’armadio e fatico a disfarmi di quanto possiedo in eccesso, perché non mi serve più o – ancora peggio – perché non l’ho mai utilizzato. E mi ritrovo a dover ammettere con gran fatica che il mio accumulo è solo un pigro tentativo di somigliare alla persona che vorrei essere e che non trovo il coraggio di diventare.

Se anche a voi accade di sentirvi un po’ più vuoti ogni volta che riempite casa – o il carrello di Amazon – con una quantità di cose di cui probabilmente non avete bisogno, potreste iniziare ad affrontare il problema attraverso un testo decisamente più letterario – ma meno rassicurante – di un best seller à la Marie Kondo.

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Inventario di spazi

[Per non disimparare a guardare
Consiglio di lettura: Georges Perec, Specie di spazi (trad. R. Delbono), Bollati Boringhieri, 2015
Consiglio d’ascolto: Georges Bizet, Carmen – Sur la place chacun passe
Consiglio in infusione: tisana allo zenzero]

Se un giorno dovessi trasferirmi su un’isola deserta, anche solo per un periodo di tempo limitato, immagino che dovrei essere pronta a scegliere almeno un libro da portare con me. Potrei optare per uno di quei tomoni che racchiudono universi completi, finiti, dove sembra che tutto sia stato scritto e in cui mi basterebbe immergermi per trovare ristoro; eppure credo che sarei più propensa a scegliere un libriccino di dimensioni più contenute, ma ricco di suggestioni per tenere in allenamento la mia capacità di immaginare. Sicuramente con una saga familiare di Thomas Mann o i tormenti di Anna Karenina avrei di che appassionarmi e non mi sentirei sola, ma credo che farebbe più al caso mio un compendio di esercizi per lo sguardo come quello realizzato da Georges Perec intorno al 1970, che conosciamo con il titolo Specie di spazi.

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