Al mondo esistono persone in grado di irradiare luce, e altre, che quella luce sono capaci di catturarla, prima che si dissolva nelle spire del tempo. Vivian Maier apparteneva a questa seconda categoria di esseri umani, e in tutta la sua vita ha fatto dell’ombra il suo spazio esistenziale, il punto da cui accorgersi – non vista – degli istanti più luminosi delle vite degli altri.
Fino a qualche giorno fa, poco o niente sapevo di lei, prima di immergermi in Dai tuoi occhi solamente di Francesca Diotallevi (Neri Pozza, 2018), uno di quei libri da cui non si torna indietro e che, mentre li attraversi, senti che qualcosa dentro di te è cambiato per sempre. Questa storia non ha la pretesa di essere una biografia accurata di Vivian Maier: l’intenzione dell’autrice, infatti, è stata di «tracciare non la vita, bensì l’immagine» di questa artista che si è dedicata alla fotografia «anima e corpo, custodendo però gelosamente il proprio lavoro senza mostrarlo o utilizzarlo per comunicare con il prossimo». Ora che l’ho conosciuta, vorrei poterle chiedere com’è che si fa a entrare dentro una vita senza fare troppo rumore, ma lasciando una traccia impossibile da cancellare.
«Custodisco le storie che le persone non sanno di vivere»: questa è l’espressione che meglio racchiude il profilo di Vivian Maier tracciato in queste pagine. Il suo talento era vegliare «sulle esistenze di quelli che la circondavano senza sfiorarle, senza interferire, comprendendo ciò che a loro stessi sfuggiva, il mistero di quella vita che passava come una folata di vento, e come il vento risultava altrettanto inafferrabile. A meno che non lo si imprimesse su una pellicola».
Osservare le persone quando non sanno di essere di fronte a un obiettivo, quando non sono in posa e rivelano il loro lato più autentico, l’unico su cui valga la pena di soffermarsi, perché le fotografie «non mentono sulle storie che raccontano». Rubare degli istanti «a quelli che, in fondo, non sanno che farsene di quei frammenti di vita destinati a dissolversi nel momento in cui accadono». Accorgersi dei momenti migliori che le persone gettano via con noncuranza, forse convinte che quei momenti torneranno, e invece non tornano mai.
«Ciò che siamo davvero lo dice il fondo dei nostri cassetti, dove accumuliamo i segreti; le tasche dei nostri cappotti, dove conserviamo i fazzoletti usati e le cose di cui dovremmo vergognarci; le pagine dei libri, tra cui nascondiamo le lettere proibite, dove schiacciamo i quadrifogli che non vogliamo veder marcire, perché qualcuno ce li ha donati affinché ci portassero fortuna».
Vivian Maier non riusciva a sopravvivere negli spazi vuoti, aveva bisogno di riempirli con carta di giornale e fotografie, «per non sentir rimbombare l’eco della propria solitudine» e «per la paura di imbattersi in se stessa». La sua vita è stata una fuga, e dalla fotografia ha imparato che le cose, come gli scatti, «hanno bisogno del buio per venire alla luce». Uno sguardo, il suo, che «non si accontentava della superficie delle cose, voleva indagarle, sviscerarle, scomporle e ricomporle, fino a possederle». Perché per lei «il mondo, così com’era» semplicemente «non bastava».
In un tempo in cui la fotografia aveva a che fare con la materia, con la capacità di imprimere su cellulosa una scheggia del tempo, il modo di intendere quest’arte – di un’artista che non ha mai saputo di esserlo – ha avuto a che fare con la verità, con la vita e con la memoria. Perché ricordare spesso è una condanna, ma può anche essere un conforto.
Con «la voglia bruciante di appropriarsi delle esistenze altrui, di un brandello della loro realtà», la Vivian Maier racchiusa in queste pagine impara che sono i legami tra le persone a rendere il mondo un posto così complicato. Forse per questo è capace di amare «come si ama ciò che non ti appartiene e mai ti apparterrà: con impetuosa sconsideratezza».
E quando le accade di incontrare un’anima affine con cui ha «saputo riconoscersi nella giostra del mondo», una persona in grado di vederla, di accorgersi delle sue stanze buie, sceglie di lasciarla andare, perché «certi amori, quelli impossibili, resistono a tutto, al tempo che passa, alla lontananza, all’assenza di prospettiva. Resistono perché non li usura la quotidianità, la vita non li mette alla prova».
«Non tutte le storie sono storie d’amore, non tutte le storie hanno lieto fine. La mia è la storia di chi ha vissuto attraverso le storie degli altri, di chi ha visto tutto senza mai essere vista. La mia è la storia di un’ombra».
Leggete questo libro e fatelo leggere. Regalatelo a tutte le persone a cui volete dire: «Ti vedo». Io ho scoperto che in questa storia c’era un messaggio per me, e sono contenta di averlo intercettato. Ve lo lascio, come amuleto da custodire per i giorni che verranno: «Io mi auguro che tu sia sempre tormentata dalla curiosità. Guarda le cose che vedono tutti, ma guardale in modo diverso da come le vedono gli altri. E sii sempre fedele a te stessa».
Finito di leggere Dai tuoi occhi solamente, si sente il bisogno di immergersi nell’universo visivo delle opere di Vivian Maier, di leggere (o rileggere) Bartleby lo scrivano e le poesie di Pedro Solinas – da una delle quali, tra l’altro, è tratto il titolo del libro.